Centro Servizi Culturali UNLA di Oristano

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“BÉLA TARR – FILMETTI E FILMINI” A CURA DI SIMONE CIREDDU

Mercoledì 29 e giovedì 30 ottobre 2025 ore 18
Sala Centro Servizi Culturali UNLA
Via Carpaccio, 9 – Oristano

BÉLA TARR
FILMETTI E FILMINI

a cura di Simone Cireddu

Sinistramente melodico, il cinema del regista ungherese Béla Tarr. Ma l’inizio non è questo. Meno di un mese fa, alle ore 13 del 9 ottobre, l’Accademia di Svezia ha assegnato il Premio Nobel 2025 per la Letteratura al maestro dell’apocalisse László Krasznahorkai. L’intera sua opera letteraria è refrattaria a una lettura immediata e a un approccio non problematico. Pagine bianche dense di nere scritture, senza nemmeno un a capo, con costanti richiami e echi di Franz Kafka, Samuel Beckett e Thomas Bernhard. L’accumulo semantico, i periodi lunghi e complessi con frasi potenzialmente infinite, la tendenza alla circolarità e alla ripetitività originano una sensazione labirintica, a tratti soffocante. Nel 1985 viene pubblicato il suo primo romanzo, Satantango. Nello stesso anno László Krasznahorkai conosce Béla Tarr: tra lo scrittore e il regista ha inizio un sodalizio artistico che durerà sino al 2011. Insieme scriveranno le sceneggiature dei film Perdizione (1987), Satantango (1994), Le armonie di Werckmeister (2000), L’uomo di Londra (2007), Il cavallo di Torino (2011). «Ho dato tutto, a questi film di Béla Tarr: titoli, nomi, storie, lo sfondo e l’atmosfera», dichiarerà Krasznahorkai il 26 giugno del 2012. Prima del fatidico incontro, tra il 1977 e il 1982 Béla Tarr aveva dato avvio al suo surreale cinema della durata e dell’attesa con i lungometraggi Nido familiare (1977), L’outsider (1980), Rapporti prefabbricati (1982), Almanacco d’autunno (1984). Inflessibile sperimentatore, otto volte su nove gira in 35 mm e rigorosamente in bianco e nero. Silenzi irreali, musiche enfatiche e durate più o meno assurde. Satantango, 450 minuti. Le armonie di Werckmeister, 145 minuti. Il cavallo di Torino, 146 minuti. Lunghe, lunghissime riprese in continuità: armonici piani sequenza e long take capaci di fondere ambienti, personaggi e narrazione. La lentezza del ritmo, il rifiuto delle ellissi, le ripetizioni e i raccordi cronologici deflagrati creano un opprimente senso di circolarità temporale. Qualsiasi cammino narrativo provvisto di una direzione, di un orientamento in avanti e di una finalità si rivela sempre un’illusione. Premesse e promesse deluse, aspettative disattese. E viaggi che si concludono al punto di partenza. Non c’è un inizio, non c’è una fine. Un approccio al cinema che va oltre, al di là di ogni forma di narrazione, definendo inedite dimensioni esperienziali. «Io detesto le storie» – dichiara nel 1987 – «perché le storie fanno credere che sia accaduto qualcosa. In realtà non accade niente: si fugge una situazione per un’altra. Ai nostri giorni non ci sono che situazioni, tutte le storie sono finite, si sono dissolte in se stesse, sono divenute luoghi comuni. Non resta ch

e il tempo. La sola cosa che sia reale è probabilmente il tempo». La dilatazione temporale e il mancato avanzare del tempo si accompagnano a una netta preponderanza dello spazio. Emerge la fisicità dei personaggi: la macchina da presa li pedina con delicatezza, ci gira intorno in un forsennato corpo a corpo, spingendosi spesso sino al primo piano strettissimo. Nel bianco e nero delle immagini ciò che resta è una sorta di visione primordiale delle cose. Le cose viste da loro stesse. Al formalismo stilistico Béla Tarr unisce un umanesimo elementare che insiste sulla dignità e sul valore degli outsider e dei reietti. L’essere umano è da lui amato per la sua intrinseca abiezione e disperazione. «Sì, davvero, questo è il mio ultimo film» – annuncia il 3 ottobre del 2011 – «davvero, non voglio ripetermi. Di film posso farne ancora dieci, quindici. Di ripetermi sarei anche capace, ma non lo voglio fare. Il pubblico lo rispetto, come rispetto il mio lavoro. E sento che il lavoro è terminato, la casa è finita. Non c’è ragione per fare ancora altro, davvero. È tutto lì, noi lo abbiamo fatto, voi lo potete prendere, o lasciare». Ci rimangono nove pellicole oniriche e contemplative, refrattarie a una lettura immediata e a un approccio non problematico. È cinema dell’impossibile, irriducibile a interpretazioni univoche, a esperienze passive e all’indifferenza dello sguardo. Tra le esperienze visive più estreme e radicali, oggi come ieri. E poi chissà. Filmetti e filmini, ça va sans dire.

Simone Cireddu è nato a Oristano il 9 marzo del 1974. Storico dell’immagine in movimento, si occupa in particolare di avanguardie cinematografiche, sperimentazione audiovisiva, found footage e documentari di creazione.

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